Come comprendere il rischio di una challenge e come aiutare i ragazzi a gestire l'impatto dei network digitali sulla loro vita.
Durante una conversazione casuale e amichevole sono venuta a conoscenza, con grande amarezza, della notizia circolata qualche tempo fa di una ragazzina di Palermo deceduta a seguito di una challenge di Tik tok. Ho sentito forte l’esigenza di documentarmi e approfondire in merito, constatando che la vicenda si è svolta attraverso l’impiego di un oggetto di uso comune utilizzato come cappio al collo, tale da aver condotto questa ragazzina a una grave asfissia e conseguente morte cerebrale. Mi rivolgo quindi a tutti quei genitori che si trovano o potrebbero trovarsi ad affrontare l’adolescenza dei propri figli e la necessità di mediare il loro rapporto con i social network.
Questo tipo di evento, nella sua drammaticità e rottura fa sorgere molti interrogativi: ci si chiede chi sia il colpevole; come sia stato possibile che da un gioco virtuale si sia determinata una morte reale; se siamo davvero a conoscenza di cosa succede nel web; se siamo di fronte a un tragico incidente ma isolato o a un fenomeno diffuso…e altri ancora.
Come psicologa e psicoterapeuta trovo necessario aprire uno spazio di riflessione e condivisione a fronte di questo tipo di episodi, perché parte del mio lavoro è consentire e difendere lo sviluppo di un pensiero critico laddove si incontra l’angoscia.
Con che cosa ci confrontiamo, quindi, in questo caso? La cornice è chiara e specifica: un social network, particolarmente diffuso tra i preadolescenti, che permette la condivisione di sfide – le challenge cosiddette – con cui chiunque desideri si può misurare, portando una testimonianza diretta della sua impresa. Le challenge possono avere tematiche delle più svariate e, come tutto ciò che circola in rete, nasce dalla proposta stessa di un utente e della conseguente condivisione virale dei contenuti video attraverso un hashtag identificativo, utile alla diffusione capillare dello stesso tra gli affiliati della piattaforma. Nel caso della ragazzina palermitana si trattava della Blackout challenge, così chiamata in riferimento a quell’istante in cui avviene una perdita di coscienza causata dalla compressione del collo, come a simulare uno strozzamento. Vediamo chi resiste di più, chi si avvicina maggiormente a quel momento estremo tra la presenza e l’assenza, vediamo se hai il coraggio. Sembrano essere questi i sottotesti che accompagnano questo tipo di challenge.
Appellandosi a una memoria storica, nonché a studi condotti in materia sociologica e antropologica, non è certo una anomalia la produzione di fenomeni gruppali di questo genere, in particolare nel contesto dell’adolescenza che si contraddistingue per alcuni capisaldi, i quali, attraversando epoche e culture diverse, si confermano fondamentali in una fase di vita che sancisce il passaggio all’adultità: l’esplorazione del limite e la sua trasgressione, la messa in discussione della norma, la ricerca identitaria, l’affermazione di sé nel rapporto allo sguardo dell’altro. A tutte queste necessità una challenge di Tik tok risponde pienamente. Non c’è da stupirsi quindi che esistano – e che ne esistano anche di così apparentemente insensate nella loro futile pericolosità – in quanto non sono altro che un mezzo particolarmente efficace e immediato per rispondere a questo tipo di esigenza. Gli adolescenti fanno cose stupide e pericolose, si sa. Stupide e pericolose agli occhi del mondo adulto, ma non bisogna mai dimenticare l’importantanza vitale che assumono in quel preciso momento determinate circostanze che possono celare veri e propri drammi esistenziali, necessari cioè a poter sentire di esistere, per quanto concerne un periodo evolutivo che pone proprio al centro del suo attraversamento l’affermazione di chi si può e vuole diventare a livello identitario.
Credo però sia possibile identificare alcune caratteristiche che contraddistinguono il contesto dei social media come Tik tok. Il network, la rete, crea milioni e milioni di contatti possibili; l’altro da cui voler essere guardato, riconosciuto, accettato, di cui sentirsi parte è una moltitudine infinita di like, è un altro che è chiunque ma non è nessuno. La messa in gioco soggettiva è filtrata da un gran numero di dispositivi che consentono una certa distanza – avatar, nickname, hashtag, schermi – e sembrano appannare le cose di una sorta di alone di finzione. Lo faccio ma solo per gioco, lo guardo ma è solo un video, sono io ma nessuno mi sta guardando negli occhi. Ritengo sia questo l’aspetto su cui portare l’attenzione, senza ridurre a giudizi semplificanti e di fatto autoconclusivi che portino a considerare i social dannosi di per sé o peggiori di altre forme espressive. Questi sono i mezzi contemporanei a cui oggi vengono affidate delle esigenze evolutive fondamentali, ma certamente è bene avere chiaro il meccanismo di messa in campo di tutto ciò, per tentare di comprendere di quali strumenti hanno bisogno di dotarsi i ragazzi per navigare, con qualche competenza, in questo oceano digitale.
Ridurre le distanze della finzione, valorizzare una messa in gioco soggettiva, abitare le proprie differenze, le proprie angosce e i propri malesseri mettendosi in campo; la sfida va accettata , sì, ma nello sguardo del desiderio di un soggetto con le sue mancanze e non nel buco nero senza fondo di una fotocamera.
Per non lasciare troppo soli bambini e ragazzi, che fanno quello che possono per diventare grandi.
Per sviluppare ulteriori riflessioni, approfondire dubbi e sostenere il percorso genitoriale che stai affrontando, contattami via email all’indirizzo luciaserrano.ge@gmail.com.